relazione di Marianna Petriccelli Comitato 2 sì per l’acqua bene comune Firenze
firenze 9 novembre 2012
Beni culturali – bene comune
Negli ultimi dieci anni il budget del Ministero per i beni e le attività culturali ha subito una contrazione del 36,4%.
I fondi a disposizione del Ministero, ridotti da 2,1 a 1,4 miliardi di euro rappresentano appena lo 0,19% del bilancio dello Stato. I dati appena illustrati, esito di politiche sostanzialmente bipartisan, evidenziano il tentativo di negare ai beni culturali la qualità di beni pubblici, beni comuni.
L’articolo 9 della Costituzione italiana, iscritto dai costituenti tra i Principi fondamentali dello Stato, è inequivocabile circa il nesso tra beni culturali e interesse pubblico: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” Con l’articolo 9 le forze politiche democratiche e popolari protagoniste del dibattito costituente declinavano in chiave repubblicana la secolare tradizione di tutela dei monumenti del Bel paese.
A partire dagli anni Ottanta il sistema di tutela pubblica del patrimonio storico artistico, la gestione dei beni culturali alla
stregua di beni comuni, è stato oggetto di un attacco riconducibile, come si cercherà di dimostrare, a settori riconoscibili della società italiana.
Grido di battaglia, vero e proprio articolo di fede dei detrattori dell’amministrazione pubblica dei beni culturali è il principio “della gestione dei musei secondo criteri di efficienza economica”. La litania di rito liberista ha innescato negli ultimi decenni striscianti mutamenti del modello gestionale dei beni culturali. Dal lento e inesorabile processo di privatizzazione del settore, tuttora in corso, sono scaturiti effetti che suoneranno familiari a chi si è speso nelle recenti campagne in difesa dei beni comuni: un sensibile aumento dei costi per l’utenza, uno scadimento della qualità dei servizi, la proliferante precarizzazione delle forme del lavoro. Dieci anni fa la Soprintendenza al Museo Egizio di Torino era
dignitosamente diretta dall’egittologa Anna Maria Donadoni.
Nel 2005 lo Stato italiano ha devoluto le preziose collezioni del Museo Egizio ad una Fondazione presieduta da Alain Elkann, padre del più noto presidente del gruppo FIAT. È recente l’avvicendamento alla guida della Fondazione, affidata a Evelina Christillin. Già responsabile eventi sportivi dell’Ufficio stampa FIAT, membro del Comitato scientifico per i cento anni della Juventus, vice presidente del Comitato per l’organizzazione dei XX Giochi Olimpici Invernali, la Christillin pochi mesi fa ammetteva candidamente in un’intervista alla Stampa di Torino a proposito della Fondazione Museo Egizio: “Lì, devo imparare tutto”.
Quanto alle precarie competenze museografiche della Christillin sarà il caso di riportare alcune recenti dichiarazioni rilasciate ai cronisti: “Alessandro Del Piero un pezzo da museo? Tutte le epoche hanno un inizio e una fine, anche se lui sarà capitano per sempre, Juventus-Atalanta del suo addio ha visto il giusto tributo a un mito. Un momento che a noi juventini fa venire la pelle d’oca”. Vengono anche a noi i brividi all’idea che una delle collezioni di antichità egiziane più prestigiose al mondo sia affidata a chi, pochi giorni fa, con toni invero un tantino provinciali, ricordava Gae Aulenti nei seguenti termini: “Gli Agnelli le diedero da fare molte delle loro case, da quella di Saint Moritz a quella di Gstaad, per non
dire della piscina color rosso-foglia nella casa di Villar Perosa”.
Circa 10 anni fa Giuliano Urbani, Ministro per i beni e le attività culturali del Governo Berlusconi bis introduceva con un articolo infilato nelle pieghe della Legge Finanziaria 2002 la possibilità che ai privati fosse demandata la gestione dei musei statali. I direttori dei principali musei europei sottoscrivevano un documento di denuncia del provvedimento destinato fortunatamente alla successiva bocciatura del Consiglio di Stato. L’art. 8 del Decreto Sviluppo varato il 26 giugno scorso costituisce la fondazione di diritto privato “La Grande Brera” alla quale sono conferiti la collezione della Pinacoteca di Brera e l’immobile che la ospita. Quanto fu impedito a Giuliano Urbani è riuscito a Corrado Passera.
L’operazione è stata condotta in porto esautorando Lorenzo Ornaghi, ex rettore dalla Cattolica di Milano e attuale titolare del Dicastero responsabile del museo avviato alla privatizzazione. L’affiatamento politico e culturale dei due ministri, l’amicizia condivisa con Comunione e Liberazione, suscitano il sospetto che il blitz normativo sia stato per tempo concertato.
Alcuni osservatori prevedono il significativo coinvolgimento nel progetto Grande Brera della Fondazione Cariplo, detentrice del 5% delle azioni di Intesa Sanpaolo, ultimo datore di lavoro del ministro Passera. Giorgio Vittadini, fondatore ed ex presidente della Compagnia delle Opere e Alberto Quadro Curzio, docente della Cattolica di Milano,
ultimo datore di lavoro del ministro Ornaghi, sostengono che il monopolio pubblico della tutela dei beni culturali, sancito dalla Costituzione, rappresenterebbe una degenerazione del welfare votata a produrre cattiva gestione. Secondo il teorema degli intellettuali cattolico-liberali il patrimonio storico-artistico del Bel paese dovrebbe essere appaltato
ad una schiera di privati “benefattori” che stenta a manifestarsi tra le fila di una borghesia più avvezza al parassitismo che alla filantropia: una borghesia, quella italiana, con il vizio della privatizzazione degli utili e della socializzazione delle perdite.
Una recente delibera CIPE ha impegnato 23 milioni di euro per il cantiere Grande Brera e altri fondi saranno stanziati dagli Enti locali. Risorse pubbliche a cui si aggiungono i 2 milioni di euro che il Mibac verserà annualmente per il funzionamento della Fondazione. Non risultano al momento impegni finanziari degli invocati benefattori privati ! I due ministri tecnici portano in dote alle élites economiche lombarde collezioni d’arte affidate per due secoli alle cure di istituzioni pubbliche. Gli elementi prodotti rivelano la natura squisitamente politica dell’affaire Grande Brera, antipasto di quanto potrebbe proporre in tema di beni culturali un esecutivo Monti dopo Monti, ovvero un governo che coinvolgesse il nascente rassemblement centrista.
L’Italia può vantare un primato internazionale nel campo del restauro e della conservazione dei beni culturali in ragione dell’eccellenza di due strutture pubbliche: l’Opificio delle Pietre dure ospitato a pochi passi da noi nella Fortezza di Basso, e l’Istituto centrale per il restauro e la conservazione di Roma: due realtà tutt’altro che risparmiate dalla drastica riduzione dei finanziamenti pubblici. Nel settembre scorso si è conclusa una vicenda che segnala quale sia la concezione della tutela dei beni culturali di un emergente protagonista della vita politica nostrana. Nei mesi scorsi, su iniziativa dell’inquilino di Palazzo Vecchio Matteo Renzi e sotto la supervisione scientifica dell’ingegnere Seracini, sono stati praticati 7 fori sull’affresco del Vasari raffigurante la Battaglia di Scannagallo al fine di rinvenire tracce della perduta Battaglia di Anghiari di Leondardo da Vinci. Le ricerche finanziate da National Geographic, rinnegano l’intera gamma dei principi dell’illustre scuola italiana del restauro. L’abiura del dibattito novecentesco sul restauro in favore di una prassi ispirata forse ad una certa filmografia anni ’80 (Indiana Jones o i Goonies per intendersi) anticipa le sollecitazioni a cui sarebbe sottoposto il patrimonio artistico italiano laddove si inaugurasse l’Era della Rottamazione. «Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto» ha dichiarato Renzi pochi giorni fa. Chi vi parla lavora agli Uffizi e vorrebbe far notare al sindaco Renzi che pressoché quotidianamente la capienza massima della Galleria è
superata con evidenti rischi per la sicurezza dei visitatori, delle opere e dei lavoratori. In tema di protagonismo delle nuove generazioni preferiamo di gran lunga e sposiamo con convinzione quanto sostenuto in materia di beni
culturali nel Manifesto degli intellettuali trenta-quarantenni.
Il patrimonio storico artistico e archeologico italiano non è una merce né tanto meno è assoggettabile a logiche di mercato. Una fruizione dei beni culturali, diffusa, popolare, gratuita o dai costi equi, faciliterebbe la traduzione in realtà del vibrante e dirompente dettato costituzionale che auspica “la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Bisogna rigettare con forza il tentativo neo ottocentesco di intestare a privati benefattori la gestione di un patrimonio che la Costituzione lega saldamente alla collettività.
I beni culturali di proprietà pubblica devono essere mantenuti con denaro pubblico al pari delle scuole e degli ospedali pubblici.
L’accessorio concorso finanziario dei privati non deve pregiudicare la dignità, la funzione civile ed educativa del patrimonio stesso. Crediamo che qualsivoglia processo di riforma del settore dei beni culturali debba prevedere l’attiva partecipazione dei lavoratori, dei protagonisti di tutti i cicli produttivi. Siamo convinti che un custode possa contribuire quanto un manager al miglioramento dei servizi museali. La tutela deve restare prerogativa delle strutture periferiche dello Stato in forza di un assunto ineludibile: il patrimonio artistico italiano è un bene comune all’intera umanità.
Negli ultimi dieci anni il budget del Ministero per i beni e le attività culturali ha subito una contrazione del 36,4%.
I fondi a disposizione del Ministero, ridotti da 2,1 a 1,4 miliardi di euro rappresentano appena lo 0,19% del bilancio dello Stato. I dati appena illustrati, esito di politiche sostanzialmente bipartisan, evidenziano il tentativo di negare ai beni culturali la qualità di beni pubblici, beni comuni.
L’articolo 9 della Costituzione italiana, iscritto dai costituenti tra i Principi fondamentali dello Stato, è inequivocabile circa il nesso tra beni culturali e interesse pubblico: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” Con l’articolo 9 le forze politiche democratiche e popolari protagoniste del dibattito costituente declinavano in chiave repubblicana la secolare tradizione di tutela dei monumenti del Bel paese.
A partire dagli anni Ottanta il sistema di tutela pubblica del patrimonio storico artistico, la gestione dei beni culturali alla
stregua di beni comuni, è stato oggetto di un attacco riconducibile, come si cercherà di dimostrare, a settori riconoscibili della società italiana.
Grido di battaglia, vero e proprio articolo di fede dei detrattori dell’amministrazione pubblica dei beni culturali è il principio “della gestione dei musei secondo criteri di efficienza economica”. La litania di rito liberista ha innescato negli ultimi decenni striscianti mutamenti del modello gestionale dei beni culturali. Dal lento e inesorabile processo di privatizzazione del settore, tuttora in corso, sono scaturiti effetti che suoneranno familiari a chi si è speso nelle recenti campagne in difesa dei beni comuni: un sensibile aumento dei costi per l’utenza, uno scadimento della qualità dei servizi, la proliferante precarizzazione delle forme del lavoro. Dieci anni fa la Soprintendenza al Museo Egizio di Torino era
dignitosamente diretta dall’egittologa Anna Maria Donadoni.
Nel 2005 lo Stato italiano ha devoluto le preziose collezioni del Museo Egizio ad una Fondazione presieduta da Alain Elkann, padre del più noto presidente del gruppo FIAT. È recente l’avvicendamento alla guida della Fondazione, affidata a Evelina Christillin. Già responsabile eventi sportivi dell’Ufficio stampa FIAT, membro del Comitato scientifico per i cento anni della Juventus, vice presidente del Comitato per l’organizzazione dei XX Giochi Olimpici Invernali, la Christillin pochi mesi fa ammetteva candidamente in un’intervista alla Stampa di Torino a proposito della Fondazione Museo Egizio: “Lì, devo imparare tutto”.
Quanto alle precarie competenze museografiche della Christillin sarà il caso di riportare alcune recenti dichiarazioni rilasciate ai cronisti: “Alessandro Del Piero un pezzo da museo? Tutte le epoche hanno un inizio e una fine, anche se lui sarà capitano per sempre, Juventus-Atalanta del suo addio ha visto il giusto tributo a un mito. Un momento che a noi juventini fa venire la pelle d’oca”. Vengono anche a noi i brividi all’idea che una delle collezioni di antichità egiziane più prestigiose al mondo sia affidata a chi, pochi giorni fa, con toni invero un tantino provinciali, ricordava Gae Aulenti nei seguenti termini: “Gli Agnelli le diedero da fare molte delle loro case, da quella di Saint Moritz a quella di Gstaad, per non
dire della piscina color rosso-foglia nella casa di Villar Perosa”.
Circa 10 anni fa Giuliano Urbani, Ministro per i beni e le attività culturali del Governo Berlusconi bis introduceva con un articolo infilato nelle pieghe della Legge Finanziaria 2002 la possibilità che ai privati fosse demandata la gestione dei musei statali. I direttori dei principali musei europei sottoscrivevano un documento di denuncia del provvedimento destinato fortunatamente alla successiva bocciatura del Consiglio di Stato. L’art. 8 del Decreto Sviluppo varato il 26 giugno scorso costituisce la fondazione di diritto privato “La Grande Brera” alla quale sono conferiti la collezione della Pinacoteca di Brera e l’immobile che la ospita. Quanto fu impedito a Giuliano Urbani è riuscito a Corrado Passera.
L’operazione è stata condotta in porto esautorando Lorenzo Ornaghi, ex rettore dalla Cattolica di Milano e attuale titolare del Dicastero responsabile del museo avviato alla privatizzazione. L’affiatamento politico e culturale dei due ministri, l’amicizia condivisa con Comunione e Liberazione, suscitano il sospetto che il blitz normativo sia stato per tempo concertato.
Alcuni osservatori prevedono il significativo coinvolgimento nel progetto Grande Brera della Fondazione Cariplo, detentrice del 5% delle azioni di Intesa Sanpaolo, ultimo datore di lavoro del ministro Passera. Giorgio Vittadini, fondatore ed ex presidente della Compagnia delle Opere e Alberto Quadro Curzio, docente della Cattolica di Milano,
ultimo datore di lavoro del ministro Ornaghi, sostengono che il monopolio pubblico della tutela dei beni culturali, sancito dalla Costituzione, rappresenterebbe una degenerazione del welfare votata a produrre cattiva gestione. Secondo il teorema degli intellettuali cattolico-liberali il patrimonio storico-artistico del Bel paese dovrebbe essere appaltato
ad una schiera di privati “benefattori” che stenta a manifestarsi tra le fila di una borghesia più avvezza al parassitismo che alla filantropia: una borghesia, quella italiana, con il vizio della privatizzazione degli utili e della socializzazione delle perdite.
Una recente delibera CIPE ha impegnato 23 milioni di euro per il cantiere Grande Brera e altri fondi saranno stanziati dagli Enti locali. Risorse pubbliche a cui si aggiungono i 2 milioni di euro che il Mibac verserà annualmente per il funzionamento della Fondazione. Non risultano al momento impegni finanziari degli invocati benefattori privati ! I due ministri tecnici portano in dote alle élites economiche lombarde collezioni d’arte affidate per due secoli alle cure di istituzioni pubbliche. Gli elementi prodotti rivelano la natura squisitamente politica dell’affaire Grande Brera, antipasto di quanto potrebbe proporre in tema di beni culturali un esecutivo Monti dopo Monti, ovvero un governo che coinvolgesse il nascente rassemblement centrista.
L’Italia può vantare un primato internazionale nel campo del restauro e della conservazione dei beni culturali in ragione dell’eccellenza di due strutture pubbliche: l’Opificio delle Pietre dure ospitato a pochi passi da noi nella Fortezza di Basso, e l’Istituto centrale per il restauro e la conservazione di Roma: due realtà tutt’altro che risparmiate dalla drastica riduzione dei finanziamenti pubblici. Nel settembre scorso si è conclusa una vicenda che segnala quale sia la concezione della tutela dei beni culturali di un emergente protagonista della vita politica nostrana. Nei mesi scorsi, su iniziativa dell’inquilino di Palazzo Vecchio Matteo Renzi e sotto la supervisione scientifica dell’ingegnere Seracini, sono stati praticati 7 fori sull’affresco del Vasari raffigurante la Battaglia di Scannagallo al fine di rinvenire tracce della perduta Battaglia di Anghiari di Leondardo da Vinci. Le ricerche finanziate da National Geographic, rinnegano l’intera gamma dei principi dell’illustre scuola italiana del restauro. L’abiura del dibattito novecentesco sul restauro in favore di una prassi ispirata forse ad una certa filmografia anni ’80 (Indiana Jones o i Goonies per intendersi) anticipa le sollecitazioni a cui sarebbe sottoposto il patrimonio artistico italiano laddove si inaugurasse l’Era della Rottamazione. «Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto» ha dichiarato Renzi pochi giorni fa. Chi vi parla lavora agli Uffizi e vorrebbe far notare al sindaco Renzi che pressoché quotidianamente la capienza massima della Galleria è
superata con evidenti rischi per la sicurezza dei visitatori, delle opere e dei lavoratori. In tema di protagonismo delle nuove generazioni preferiamo di gran lunga e sposiamo con convinzione quanto sostenuto in materia di beni
culturali nel Manifesto degli intellettuali trenta-quarantenni.
Il patrimonio storico artistico e archeologico italiano non è una merce né tanto meno è assoggettabile a logiche di mercato. Una fruizione dei beni culturali, diffusa, popolare, gratuita o dai costi equi, faciliterebbe la traduzione in realtà del vibrante e dirompente dettato costituzionale che auspica “la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Bisogna rigettare con forza il tentativo neo ottocentesco di intestare a privati benefattori la gestione di un patrimonio che la Costituzione lega saldamente alla collettività.
I beni culturali di proprietà pubblica devono essere mantenuti con denaro pubblico al pari delle scuole e degli ospedali pubblici.
L’accessorio concorso finanziario dei privati non deve pregiudicare la dignità, la funzione civile ed educativa del patrimonio stesso. Crediamo che qualsivoglia processo di riforma del settore dei beni culturali debba prevedere l’attiva partecipazione dei lavoratori, dei protagonisti di tutti i cicli produttivi. Siamo convinti che un custode possa contribuire quanto un manager al miglioramento dei servizi museali. La tutela deve restare prerogativa delle strutture periferiche dello Stato in forza di un assunto ineludibile: il patrimonio artistico italiano è un bene comune all’intera umanità.